Le testimonianze delle vittime: i maschi colpiti con spranghe, bastoni e scariche elettriche. Le donne ridotte a schiave sessuali
«Ismail era il capo del campo, tutte le guardie dipendevano da lui. Lui ce lo diceva sempre: «Io non sono somalo, non sono musulmano, sono il vostro padrone»». Il campo si trova a Beni Walid in Libia. Da lì transitano i migranti che vogliono venire sui barconi in Italia. Il biglietto costava 7000 dollari. «Siccome i miei facevano fatica a pagare Ismail mi disse: “A te da stasera ci penso io” e da quella sera ho iniziato a subire gravi violenze», mette a verbale H.I.M una diciassettenne somala. la prima a riconoscere che Ismail altri non era che Osman Matammud alias Osman Mahamud, un 22 enne di Mogadiscio che alla fine si era mischiato con i richiedenti asilo ospiti del centro di via Sammartini a Milano.
I racconti di chi lo ha riconosciuto contenuti nelle 41 pagine dell’ordinanze del giudice Anna Magelli di Milano che ha emesso un ordine di custodia per il somalo non sono pubblicabili integralmente perchè troppo crudi. Ma danno chiaramente idea della vita nei «campi» dove ogni richiedente asilo veniva picchiato se non ucciso. E il peggio era destinato alle donne. H.I.M. che nelle mani di Osman Matammud c’è rimasta dal novembre 2015 al marzo 2016 racconta la vita quotidiana per le donne come lei: «Ismail è venuto e mi ha stracciato il vestito davanti a tutti. Quando sono rimasta nuda ha cercato di penetrarmi ma non ci è riuscito perchè sono infibulata… Dal dolore sono svenuta, quando mi sono svegliata mi aveva già violentato perchè avevo sangue dappertutto. Sono stata violentata molte volte da Ismail, tutte le notti».
Osman Abduloani racconta anche la vita quotidiana al campo: «Dormivamo in un grande capannone. C’erano centinaia di persone, maschi e femmine. Dormivamo per terra accatastati uno sull’altro. Ogni volta che arrivavano altre persone ci dovevamo stringere sempre di più. A volte non si riusciva neppure a sdraiarsi per quanti eravamo. Poi a gruppi chi aveva pagato veniva portato via per fare il viaggio sui barconi. Mangiavamo poco e male. C’era solo un bagno per i maschi e uno per le donne». Ma quello che è peggio è il ricordo delle torture di Ismail: «Si divertiva a trovarne sempre nuove. Mentre torturava rideva e parlava al telefono. Gli piaceva torturarci».
Ma è alle donne che andava peggio, molto peggio. M. A. è rimasta per 5 mesi fino a marzo 2016 nel campo di Ismail: «Mi diceva: “Spogliati ragazza, tu mi appartieni, mi devi obbedire”. Poi sono arrivati i suoi uomini e mi hanno legata con delle corde alle persiane delle due finestre, con una mano su una persiana e una sull’altra. Sono stata chiusa lì dentro tre giorni e tre notti in cui sono stata violentata». Ad Ali Oumar Nuur sono bastati due mesi per vedere l’orrore di cui era capace Ismail: «L’ho visto personalmente spaccare con un tubo di ferro le braccia e le gambe ad almeno 5 uomini». Altri raccontano di essere stati legati e incaprettati, mentre Ismail li picchiava sulle piante dei piedi. Alcuni raccontano le privazioni di cibo. E dell’omicidio di due ragazzi ammazzati a bastonate. Alla fine di un verbale il giudice Ann Magelli scrive: «L’ufficio dà atto che, mentre riferisce di queste violenze, il teste piange».
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